Nasoma Y’Ombembwa:
l’odissea monastica nel quarto mondo
È il 1978: ritornano
le prime tre sorelle angolane dopo 12 anni di formazione in
un monastero spagnolo. Un gruppo di ragazze le aspetta e iniziano
così i
primi passi di una vita monastica trappista in Angola.
1980: si aggiungono alle prime tre altre
tre sorelle italiane del Monastero di Valserena e inizia
la fondazione vera e propria.
Entreranno poi altre giovani,
perseverando alcune, e tra le molte difficoltà della
guerra e della situazione sociale ed economica, la comunità continuerà lentamente
a crescere e mettere radici.
Come tutti i figli di San Benedetto,
anche Nasoma Y’Ombembwa
inizia a irradiare uno spirito di trasformazione intorno a
sé: si distribuiscono i beni inviati dall’Italia,
si salvano innumerevoli vite di bambini e vecchi, con una mensa
quotidiana che durerà 17 anni, si costruiscono decine
e decine di case per i rifugiati, e si inizia a organizzare
una agricoltura per la sussistenza.
Il primo terreno che le sorelle iniziano a coltivare è una
vera novità per la chiesa locale, che in seguito seguirà il
suo esempio nel rischio di uscire dal cerchio della città,
per seminare e raccogliere i frutti della terra. La novità è data
dal fatto che ci voleva un po’ di coraggio in quegli
anni per uscire 20 km fuori da Huambo, perché le strade
minate non invitavano ad essere percorse. Vedere le automobili
saltare per aria dopo aver azionato una mina e continuare ad
uscire era una sfida alla Provvidenza, che, dobbiamo dire si è comportata
magnificamente proteggendoci sempre lungo i venti anni nei
percorsi su strade ultrapericolose. D’altronde coltivare
voleva anche dire poter vivere, e così altre congregazioni
religiose hanno seguito il nostro esempio in questo fecondo
legame con la terra.
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Ma in questo primo terreno di Cuando non c’era abbastanza
spazio, e così abbiamo comprato la fazenda di Cambiote,
luogo più bello, più ricco di acqua e, coltivando,
abbiamo cominciato a sognare di costruire lì il monastero.
Ma i tempi erano ancora pericolosi per vivere fuori città,
e il sogno restava sogno, ma il luogo più alto, vicino
al grande lago, ci affascinava realmente. Poi sono arrivati
i militari e hanno fatto la loro base vicino a noi.
Erano tempi duri quelli: noi coltivavamo, e loro raccoglievano;
si andava a fare il bucato al lago e ci trovavamo circondate.
Impossibile andare avanti e abbiamo dovuto abbandonare bananeto,
alberi da frutta, grandi distese di fragole e l'orto in balia
dei soldati.
Abbiamo poi chiesto ai Padri che vivevano alla Missione di
Kakuti un campo per fare là, più al sicuro, il
nostro orto. Questo è durato neanche due anni, perché ci
siamo messe, nel 1992, anno di Pace, a cercare un luogo più ampio
e sicuro, per coltivare e poter anche costruire il Monastero.
Abbiamo girato mezza Angola, e poi abbiamo scelto una fazenda
di 4.000 ettari alla base di una lunga, enorme catena di montagne:
la Lumbanganda, a 11 km da un antico centro commerciale, il
Bailundo, e più o meno distante 80 km da Huambo (4 ore
di viaggio). Ci siamo trasferite con tutto, e abbiamo vissuto
là tanti mesi belli, dissodando terre, piantando alberi
da frutta e… sognando il Monastero. Dopo quattro anni
di lavori duri si è scelto il luogo e si è invitato
un geometra per darci consigli, e a quel punto sono iniziati
i problemi con le autorità dei guerriglieri nella cui
area vivevamo. Il geometra, italiano, è stato accusato
di essere una spia dei capi del governo, (il territorio era
occupato dal partito di opposizione, l’UNITA) e noi siamo
state “giudicate” dai capi del villaggio vicino,
che tra l’altro stavamo aiutando dando lavoro, cibo e
medicinali. Minacciate anche di essere rapite, per fare, come
molti, più di mille km a piedi e per arrivare alla Jamba,
base del Grande Capo (Sawimbi) abbiamo preferito non continuare
il braccio di ferro. Abbiamo recuperato quel che era possibile
con il nostro camioncino: il tetto delle due case che avevamo
costruito, un tavolo, qualche sgabello, le coperte su cui dormivamo
per terra e poco più. Non abbiamo dimenticato però di
sradicare una ventina di giovani alberi da frutta preparandoli
per essere piantati altrove.
La nuova ondata di guerra non era
ancora iniziata per cui ci siamo messe di nuovo a cercare un
po’ di terra per coltivare
e un posto in cui forse un giorno il Monastero tanto desiderato
avrebbe potuto sorgere. Abbiamo visto da lontano, con la nostra
Madre di Valserena presente, un ciuffo di alberi in cima ad
una grande collina e alcune sorelle hanno incominciato a sospirare
di conoscere quel luogo chiamato Soke.
Abbiamo scoperto che
il ciuffo di alberi e la collina facevano parte di una grande
fazenda di 2.000 ettari che prima dell’indipendenza
apparteneva a un signore portoghese, allevatore di buoi e proprietario
di un magazzino in cui la gente dei villaggi circostanti poteva
comprare un po’ di tutto. Poi, durante gli anni di guerra
che non finivano mai il luogo, essendo alto e con una visuale
strategica, era stato prima quartiere militare del EMPLA e
poi dell’UNITA, e successivamente di nuovo dell’EMPLA,
dopodiché nessuno aveva più messo un piede sulla
grande collina perché la sua terra nascondeva innumerevoli
mine. Non ci siamo fermate, anche se molti ci ostacolavano
e ci sconsigliavano. Abbiamo visitato il Soke un po’ alla
larga e in punta di piedi, e ci siamo accorte che era un luogo
magnifico, non ancora occupato solo a causa delle molte mine.
L’abbiamo richiesto alle autorità, e ce lo hanno
assegnato, e da quel giorno siamo andate sempre un po’ più avanti.
Abbiamo pagato i militari, che avevano messo le mine, perché le
togliessero, liberando il terreno. E ci hanno aperto un cammino
attraverso il quale abbiamo incominciato a scorgere la nuova “terra
promessa”, con le sue grandi rocce una sull’altra,
le valli, l’orizzonte di grandi montagne e, sola in mezzo
ai rovi, una pianta di rose, segno di un passato non ancora
del tutto scomparso. Poi il nuovo iniziare a dissodare, il
trattore saltato sulla mina, e gli alberi da frutta
piantati a lunghe file, la gente del villaggio, vicino
cinque km, che ci guarda con speranza, e Lazzaro, ferito da
una anti - uomo esplosa al colpo della sua zappa… Paure,
speranze, coraggio e sconfitte , tutto si mischiava nei nostri
cuori e andavamo avanti.
Si è costruita la prima casa con mattoni di fango, ma
ben fatta e un gruppo di noi ha incominciato a vivere là,
sulla montagna. È iniziato un nuovo impeto di guerra
e ci ha trovate là, continuando a piantare caffè e
alberi da frutta e passando le notti con gli occhi semichiusi
e le orecchie attente. Poi due assalti e una guardia uccisa,
le cose tutte rubate e il coraggio spezzato, ma non per sempre… Intanto
si è progettato il piano del nuovo Monastero. Le persone
che al momento ci aiutavano forse non hanno saputo leggere
i segni del tempo, non abbiamo potuto interromperci al momento
opportuno, la guerra è sopraggiunta di nuovo e tutto è andato
male, facendoci perdere le poche risorse.
Il duro colpo ci ha lasciate per qualche tempo un po’ abbattute,
ma poi la provvidenza ci ha inviato come Cappellano un buon
padre dal Brasile, esperto in costruzione di monasteri, che
in poco tempo ci ha messo davanti vari progetti da scegliere.
Abbiamo cominciato a selezionare e lavorare per la realizzazione
di uno di essi, ma d’improvviso il Padre José è stato
fulminato da un malore, è crollato durante una Celebrazione
Eucaristica ed è vissuto due settimane tra la vita
e la morte.
Evacuato in Italia gli è stato riscontrato un tumore
al cervello, e dopo pochi mesi è morto santamente. Dove
sia finito il progetto nessuno lo ha più saputo... Che
fare? Abbiamo chiesto aiuto all’Ordine per avere il soccorso
di un nuovo architetto. Un buon fratello, ora Abate di un Monastero
in Messico, si è reso disponibile ed ha realizzato un
nuovo bel progetto che da tre anni attende con noi. Siamo già riuscite
a realizzarne una parte: il laboratorio farmaceutico, che già da
un anno funziona ed assicura il lavoro principale alla comunità.
Il resto è ancora un sogno per… mancanza di fondi.
Noi, più vecchie, la prima generazione, un po’ stanca
per le tante guerre e il lungo “cammino nel deserto”,
siamo disposte, come Mosè, a restare alle soglie della
Terra Promessa, se Dio vuole così, ma vorremmo, come
Davide, preparare il materiale perché la nuova generazione,
il nostro Salomone, potesse realizzare la costruzione di una
casa di Dio in questo angolo martoriato di Africa.
Amen!
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